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L’era degli scarti. 
Cronache dal Wasteocene, la discarica globale
Marco Armiero, Einaudi 2021
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara


Di Paolo Risi

I rifiuti: un tema dibattuto; ma Marco Armiero – storico dell’ambiente – va oltre, proponendo una narrazione che collega scarti, disuguaglianze e il mondo che stiamo creando. In tal senso il Wasteocene dà conto delle implicazioni, prova a scardinare un’interpretazione semplicistica su scarti (umani e non umani) e società. Gli scarti non definiscono soltanto chi sono gli altri, ma anche «chi siamo noi», scrive Armiero citando Gay Hawkins, e il noi presenta i tratti somatici e la brama di dominio dei colonizzatori. Il noi sfaccettato del Wasteocene tende a contrapporsi al noi rettilineo dell’Antropocene; vi è una tendenza che accomuna vittime e carnefici nel dissesto ecosistemico, tinteggiatura di fondo che rende – o rischia di rendere – le argomentazioni sull’Antropocene astratte e scivolosamente accademiche.

Fattori come il razzismo e il colonialismo evaporano nel contesto antropocenico. L’appropriazione di terre e valori, la loro riconversione in manufatti del capitale, hanno contribuito e contribuiscono a specificare un orizzonte politico che il costrutto dell’Antropocene ignora o perlomeno tende a sottovalutare. Scartare significa decidere che cosa ha un valore e che cosa non lo ha scrive Armiero, affermazione che mira a ricombinare gli elementi in gioco nella deriva climatica. In quanto meccanismo narrativo, il Wasteocene ha il potere di dire il vero, ossia di considerare le ingiustizie non come effetti collaterali, quasi invisibili, ma come l’elemento forte di un sistema che produce ricchezza e sicurezza attraverso l’alterizzazione di coloro che devono essere esclusi.

L’era dello scarto si autorettifica attraverso storie, storie negate e narrazioni tossiche. Possiamo solo immaginare la complessità del meccanismo, e la sua pervasività, articolazione di procedure che la letteratura e la cinematografia hanno ben drammatizzato e reso accessibile (nel volume vengono citate alcune opere, tra le quali la serie brasiliana 3% e il film Elysium del regista Neill Blomkamp). Antropocene per certi aspetti incorporeo, levigato: Armiero prende in prestito una definizione di Stefania Barca (“narrazione del padrone”) per circoscrivere il lavoro di smantellamento della memoria funzionale alla salvaguardia e alla riproduzione di wasting relationships. Anche in questo caso gli esempi delineano gli ordini di grandezza, l’incidenza (tossica) di alcune interpretazioni ideologiche e storiografiche.

Il disastro del Vajont ha in sé tutte le prerogative del Wasteocene. In nome del progresso e del profitto un luogo venne sospinto sul baratro dell’irrilevanza, con le conseguenze, su corpi, saperi e memorie, che tutti conosciamo. Lo strazio delle vite e l’oltraggio postumo: si incaricheranno poi gli ingegneri del consenso e gli opinion leader a produrre indeterminatezza e ad affievolire l’oggettività scabrosa, il danno reale. Le estrinsecazioni del Wasteocene compongono un quadro organico; dal Vajont la sensibilità e l’accuratezza di Marco Armiero si spingono fino a Taranto, luogo seppellito dalle polveri dell’acciaieria, nella Cancer Alley della Louisiana (sette raffinerie di petrolio e 136 impianti petrolchimici ammassati tra New Orleans e Baton Rouge), e a seguire nell’immensa discarica di rifiuti elettrici ed elettronici di Agbogbloshie in Ghana.

Un capitolo, poi, è dedicato alla città natale dell’autore, Napoli. Non ho teorizzato il Wasteocene. Ci ho vissuto. L’ho visto. L’ho odorato e respirato. Provengo da lí. Napoli è da tempo considerata una delle tante porte che introducono al Wasteocene. Le riflessioni si appoggiano su eventi emergenziali, se non epifanici: le epidemie di colera del 1884 e del 1973, l’emergenza rifiuti degli anni Novanta e Duemila, il ‘male oscuro’, a fine anni Settanta, malattia respiratoria che colpì un elevato numero di bambini. Le wasting relationships trovarono nei morbi e nel pattume il loro corto circuito fisiologico, sorta di insurrezione dalle viscere della città, di attacco all’ordine fondativo del Wasteocene in quanto progetto di alterizzazione che doveva costruire un «noi» al sicuro separato da un «loro» contaminato e minaccioso.

L’indagine diviene esperienza personale e vissuto; dal “laboratorio” Napoli al Covid-19 l’autore si immerge – da cittadino e ricercatore – nella trama del Wasteocene. Nel 2020 Armiero si ammala seriamente e dall’interno della pandemia ha modo di attualizzare convinzioni e connessioni storiche. Sottolinea la differenza tra il proprio status (di professore italiano bianco residente in Svezia) e la condizione di chi si ritrova disarmato al cospetto del contagio e della malattia, e nel contempo mette in luce le pratiche di commoning che durante la pandemia hanno generato risorse, aggregazione e interventi di aiuto (vengono citate le Brigate della solidarietà popolare, ‘rete di gruppi di mutuo soccorso autogestiti, che agiscono in autodifesa del popolo, per il popolo’)

Il Covid-19 ha reso necessari piani di contenimento e di supporto alla popolazione, inderogabili e di stampo emergenziale; in proporzioni globali l’ennesimo botta e risposta epifanico, contrappunto della logica wasteocenica. A fronte di ciò si è fatta strada la propositività delle pratiche di commoning, illuminanti nel fornire prospettive nuove al vivere comune, nel donare consapevolezza. Guerriglia creativa, controegemonica: difficile non pensare all’arte e alla cultura in generale come strumenti di dissenso, di critica costruttiva al Wasteocene, e su tale lunghezza d’onda Armiero dà risalto al progetto dell’artista brasiliano Vik Muniz, che per due anni – nella discarica di Jardim Gramacho, a Rio de Janeiro – ha collaborato con i catadores (raccoglitori di rifiuti) nel trasformare i materiali di scarto in strabilianti opere d’arte.

In un certo senso lo scarto si riscatta, rifiuto (in senso letterale o figurato) che devia da un percorso obbligato, si fa messaggero e portatore di istanze. Altre storie, di costruttiva ribellione: tra le più sorprendenti – nella panoramica proposta dall’autore – quella della Snia Viscosa di Roma, fabbrica che dal 1923 al 1954 ha prodotto rayon, fibra sintetica la cui lavorazione implica l’utilizzo di sostanze chimiche estremamente tossiche.

Dopo l’interruzione della produzione, la fabbrica rimase abbandonata per decenni fino agli anni Novanta e Duemila, quando divenne l’obiettivo di diversi progetti di speculazione miranti a trasformare l’area industriale in centro commerciale o in un complesso residenziale. Mentre un movimento dal basso iniziava a mobilitarsi per difendere la zona, occupando parte degli edifici allo scopo di ospitarvi attività culturali e politiche, anche la natura apparve ergersi contro il piano di sviluppo. La fabbrica era stata costruita su terreni umidi, precisamente per approfittare dell’abbondanza di acqua, ma quando gli interventi per il nuovo progetto ebbero inizio, quella medesima acqua riemerse dal suolo, creando un lago in mezzo a quello scenario postindustriale. I costruttori tentarono di fermarne la formazione, pompando acqua nel sistema di condutture fognarie, ma l’unico risultato che ottennero fu il gigantesco allagamento dell’intero quartiere (…) Alla fine il lago si stabilizzò, richiamando uccelli, umani e altri animali in una sorta di alleanza multispecie che riuscí a bloccare i lavori. Sulle rovine di un passato industriale tossico era nata un’esperienza di commoning, che ha portato alla creazione di un parco naturale e di un centro sociale autogestiti dagli attivisti.

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Cronache dal Wasteocene, la discarica globale | Marco Armiero

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