Intervista di Antonia Santopietro
Stefano Caserini insegna Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Svolge da anni attività di ricerca e di consulenza per enti pubblici e privati nel settore dell’inquinamento dell’aria e dei cambiamenti climatici. È co-direttore della rivista scientifica Ingegneria dell’Ambiente ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative, ultima di queste Il clima è già cambiato – Edizioni Ambiente recensito da ZEST qui. Tra le altre cose dirige il blog www.climalteranti.it, spazio di approfondimento e discussione sul tema dei cambiamenti climatici.
E proprio partendo da questa proposta di lettura, Il clima è già cambiato che abbiamo pensato di rivolgere a Stefano Caserini alcune domande di approfondimento.
“Col tempo mi sono accorto che la domanda di positività arriva soprattutto dai giovani,”
cosa sanno secondo lei i giovani della situazione riguardante il clima, ovvero quale ritiene sia attualmente il livello di consapevolezza diffusa?
La consapevolezza non è elevata, ma sta aumentando; inoltre, il cambiamento climatico inizia a far sentire chiaramente i suoi effetti, con inverni stranamente miti e ondate di calore estive. L’attenzione per questo tema sta aumentando, per chi come me segue da 15 anni questa tematica, il cambiamento c’è stato, il clima è cambiato, come dice il titolo del libro.
Con il suo testo ci è sembrato lei voglia fare la tara all’eccesso di catastrofismo, e offrire una prospettiva migliorativa delle tesi attualmente esistenti in primis l’effetto Venere, ci vuole illustrare la sua controdeduzione alla visione di Hansen?
Non accuserei Hansen di eccesso di catastrofismo, sono opinioni scientifiche diverse. Nel libro mostro come la possibilità di un innesco di un effetto serra incontrollato, che potrebbe distruggere tutta la vita presente sul pianeta, non ha oggi un grande consenso scientifico.
Secondo altri scienziati la Terra non avrebbe una temperatura iniziale sufficientemente alta (come invece ha avuto Venere) per far evaporare gli oceani in seguito a un riscaldamento globale. Quindi ben prima che gli oceani evaporino completamente gran parte del vapore acqueo si trasformerebbe in pioggia ritornando al suolo. L’effetto Venere non può essere ancora completamente esclusa, perché rimane debole la comprensione della termodinamica di questi processi, la fisica di un’atmosfera così calda e umida, ma la buona notizia è che oggi molti scienziati la ritengono improbabile.
Sul testo leggiamo:
“Ci sono opinioni diverse fra gli studiosi su quanto il diniego possa essere un meccanismo inconscio, involontario, su quanto si possa effettivamente sapere e non sapere. In molti casi, può essere più adeguato il concetto di malafede, una forma di diniego che la mente rivolge consapevolmente a se stessa...”
Ci viene da chiedere come sia possibile avere visioni diverse su fenomeni che basano la loro attendibilità su dati scientifici.
Sono molte le spiegazioni del negazionismo. Spesso contano ragioni di natura economica e finanziaria, ossia la difesa di interessi corporativi, su questo l’attività delle lobby fossili USA è stata documentata con precisione, è ormai storia. Altre volte la spinta arriva da una battaglia ideologica, volta a difendere a tutti i costi l’attuale concezione dello sviluppo e della produzione, un modo per conquistare spazio politico nei settori più conservatori e anti ambientalisti. Molti interventi negazionisti degli ultimi anni si spiegano più con ragioni più di ordine psicologico e sociologico, l’esibizionismo e il narcisismo, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione o la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia.
Una delle necessità che emergono forti nel tentativo di aderire all’obiettivo dei 2C è la riduzione di utilizzo delle fonti fossili, che si dice debbano restare stipate sottoterra a favore di quelle rinnovabili e questo lei dice ha destato l’attenzione del mondo della finanza, vuol dire ai nostri lettori quali crede siano le prospettive in tal senso?
Negli ultimi due anni è arrivato un segnale forte e chiaro di attenzione al problema climatico da parte del mondo della finanza. Il motivo è se c’è una politica sul clima tre quarti delle riserve di combustibili fossili devono rimanere sottoterra: quattro quinti delle riserve di carbone conosciute e estraibili, metà di quelle del gas e un terzo di quelle del petrolio.
Il problema è che il valore contabile delle compagnie di combustibili fossili private o statali considera già le aspettative dei ricavi economici di una buona parte di questo carbone, petrolio e gas che andrebbe lasciato sottoterra. Per questo si parla di “bolla del carbonio”: se si contrasterà seriamente il riscaldamento globale qualcuno dovrà rinunciare a un po’ di profitti, e questo ha conseguenze sul valore di capitalizzazione delle aziende fossili. Per questo il mondo della finanza ha iniziato a preoccuparsi.
Le prospettive sono che di un aumento di attenzione del mondo finanziario. Inizieranno a fare meglio i conti e a capire che conviene anche a loro quantomeno diversificare gli investimenti. Già ci sono rapporti che forniscono raccomandazioni agli investitori, agli analisti, ai regolatori dei mercati e ai decisori politici, su come iniziare ad affrontare il problema.
E i segnali interessanti ci sono: negli Stati Uniti in pochi anni 26 grandi compagnie del carbone sono andate in bancarotta e 264 miniere di carbone sono state chiuse. Peabody Energy, la più grande corporation privata che estrae e vende carbone, e Arch Coal, il secondo produttore di carbone negli Stati Uniti, sono sostanzialmente fallite. Nel libro cito un rapporto di HSBC, uno dei più grandi gruppi bancari del mondo, ce ha tradotto l’effetto della bolla del carbonio in potenziali perdite del valore di capitalizzazione: per alcune compagnie come BP, Total o l’italiana Eni la perdita è pari a 6-8%, per altre come la Norvegese Statoil si arriva al 17%
Noi riteniamo che se c’è necessità di un sistema di azioni e interventi a livello macro non di meno è altrettanto cogente a livello micro, ovvero del tessuto produttivo e di quello dei consumi, in modo che si possa contribuire in modo incisivo con comportamenti e scelte consapevoli e responsabili. Crede che in questo le nostre imprese abbiano colto il messaggio?
Molte sì, molte aziende hanno capito che su questo tema si gioca molto del loro futuro. Alcune come ENEL sono più avanti, sembrano avere una visione più lungimirante. Altre come ENI sembrano fare più fatica ad abbandonare il business tradizionale. Ma è solo questione di tempo.
Lei ha scritto: “Per chi preferisce il mondo del reale, il pianeta non è in pericolo. Lo sono la specie umana e gli altri esseri viventi che lo popolano. Lo sappiamo e sappiamo perché. E anche questa è una buona notizia.” Per quanto sia chiara la dimensione dell’affermazione non possiamo non restarne colpiti, vuol darci un approfondimento di questo pensiero?
Anche se lo scenario dell’effetto Venere può essere accantonato, gli impatti dei cambiamenti climatici saranno pesanti, sia per le attività umane che per gli ecosistemi. Non rispondono ai requisiti del catastrofismo giornalistico, non sono previste le onde gigantesche dei film stile Hollywood, o scenari di distruzione totale generalizzata, ma non per questo sono meno pericolosi. Molti impatti si stanno già verificando, ma quelli più gravi riguardano i prossimi decenni, secoli e anche millenni. Sono proiezioni che hanno poco appeal, interessano meno delle previsioni del tempo atteso nel week end. Il problema climatico in un’ottica plurisecolare, l’avvio di processi pericolosi in quanto inarrestabili una volta avviati (la fusione delle calotte polari, l’innalzamento del mare), interessa molto meno delle carestie, inondazioni e disastri attuali. Ma un aumento del livello del mare di diversi metri in qualche secolo è in grado di cambiare faccia a molte terre emerse, dove vivono decine di milioni di persone.