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Rubrica Sezione Aurea
(il punto di contatto tra estetica e matematica)

di Giovanni Nuti


 

L’infinito attuale si presenta in tre contesti: in primo luogo quando si realizza nella forma più completa, in un’essenza mistica completamente indipendente, in Dio, che io chiamo Infinito Assoluto o, semplicemente, Assoluto; in secondo luogo quando si realizza nel mondo contingente, creato; in terzo luogo quando la mente lo coglie in abstracto come una grandezza, un numero o un tipo di ordine matematico

(Georg Cantor)

«Ezra Pound ha definito la poesia, “linguaggio carico di significato al massimo grado” (ABC del leggere, 1934). E, pur con tutto il rispetto per i versi dei poeti, sarebbe difficile immaginare espressioni più dense di significati delle formule dei matematici: ad esempio la formula E=mc^2, che in soli cinque simboli esprime quell’equivalenza tra energia e massa che costituisce una delle maggiori scoperte della fisica del Novecento e nasconde il segreto dell’energia nucleare pacifica e bellica.» (P. Odifreddi, Leopardi bocciato all’esame di matematica, la Repubblica, mercoledì 5 luglio 2017)

Potremmo lasciar perdere. Potremmo, con una battuta dire che l’argomentazione di Odifreddi si commenta da sé, insieme al titolo “scolaresco” del suo articolo: argomentazione che offende la poesia e la matematica.

Ma il nostro saccente divulgatore conclude il suo esame sui rapporti tra Leopardi e la matematica nel modo seguente: «… dalla fine dell’Ottocento viviamo nel “paradiso dell’infinito che Georg Cantor ha creato per noi”. È un paradiso costituito da inteminati spazi e sovrumane quantità…», parafrasando, ovviamente, “L’infinito” del nostro poeta.

Odifreddi sostituisce “silenzi” con “quantità. Non è una sostituzione da poco. Prefigura un “paradiso” terribile, in cui potremmo in realtà solo sopravvivere. Il gioco si fa duro. Sarebbe negligente tacere. Non importa se l’altro ascolta la replica, qui non si tratta solo di dialettica, è la nostra stessa interiorità che chiede un voce di giustizia. Quindi, non dobbiamo tacere.

Leonardo, uomo senz’altro incline a una perenne sintesi tra arte e scienza, nel suo Trattato della pittura, scrive:

“… queste due scienze [geometria e aritmetica] non si estendono se non alla notizia della quantità continua e discontinua, ma della qualità non si travagliano, la quale è bellezza delle opere di natura ed ornamento del mondo.”

Ora, il discorso di Odifreddi, epigone delle “magnifiche sorti e progressive” contemporanee, non solo sostituisce la qualità con la quantità, ma sottilmente tende a rendere anacronistica, quasi fosse un peccato di ingenuità originario, la cultura umanistica.

Ricordo un episodio di qualche anno fa, in cui, steso ad oziare in riva al mare, fui risvegliato nel mio torpore da una conversazione di dotti villeggianti in costume da bagno. Erano tutti Bocconiani stupefatti del tempo perso dai loro figli a studiare i versi dei poeti, finché un ingegnere “capobranco” non sbottò contro Leopardi intimando: «… ma tagliamola questa siepe, che di tanta parte il guardo esclude!»

Ovviamente poco interessava allo sbrigativo tecnologo la qualità dell’impedimento allo sguardo “dell’ultimo orizzonte”.

Appunto, potremmo definire Umanesimo “ricerca e narrazione della qualità”. Ma cos’è questa qualità?

Seguendo la traccia del poeta di Recanati, è un’esperienza che si pone oltre un limite, un impedimento che tuttavia amiamo. “Tanto caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe…”.

Amiamo i nostri limiti o termini esistenziali, corpo, casa, patria, cultura (…), ma raggiungiamo la bellezza viva solo oltre il limite, “sedendo e mirando… nel pensier mi fingo”. Il poeta non misura, non resta nel dettato sintattico, oggettivo e descrittivo, ma “mira” e “nel pensier si finge”.

“Mirare” viene dal latino mīrari «meravigliarsi, ammirare» e nel latino tardo «guardare».

“Fìngere” (ant. fìgnere) deriva dal latino fingĕre, nel suo significato di formare, plasmare, modellare e rappresentare per mezzo dell’arte (disegno, pittura, scultura).

Leopardi usa questo due verbi, in un momento decisivo del canto, come se volesse, non solo oltrepassare l’elemento fisico della siepe, ma un limite ancora più radicale.

Questo limite è il linguaggio.

Lo aveva ben chiaro Parmenide: “La saggezza dei mortali consiste dunque solo di nomi, giacché non sa porre il rapporto stretto che deve essere mantenuto con la realtà delle cose.”. (L. Ruggiu)

Parmenide: padre filosofico, il cui parricidio operato da Platone, per voce dello straniero di Elea, ha determinato la caduta dialettica di tutta la filosofia a venire e la visione duale della scienza attuale, scissa in oggetto e soggetto.

Questo, badiamo bene, nonostante la “crisi” del Novecento ad opera di Göedel, Heisenberg e Popper, rispettivamente nel campo della matematica, fisica ed epistemologia.

Paradossalmente, a radicare la visione nominalista, quantitativa e tecnologica del mondo, ha contribuito l’Ontologia esistenziale, l’Esser-ci (Dasein) di Martin Heidegger. È vero che il pensiero del filosofo tedesco è anti-tecnocratico e pone il poeta come custode dell’Essere, ma rinchiude questo essere nel linguaggio:

« … im Denken das Sein zur Sprache kommt. Die Sprache ist das Haus des Seins. In ihrer Behausung wohnt der Mensch. Die Denkenden und Dichtenden sind die Wächter dieser Behausung. »

« … nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. »

Ma la poesia non è densità di significato, piuttosto densità di senso: un orientamento che nel dire dell’esistenza si approssima al silenzio dell’essere. Nel poeta c’è sempre una sottile, ma implacabile azione demolitrice della dimora del linguaggio. Non confonderemo, quindi, la partitura con la musica, e i suoi silenzi con “zeri banali”. Bisogna saper guardare e ascoltare oltre qualsiasi cifra, numerica o alfabetica.

Lo stesso Georg Cantor distingue la qualità metafisica dell’infinito assoluto, a cui pare tendere la poesia, da tutto il resto.

Parafrasando Heidegger:

Nel pensiero l’essere cade e svanisce nel linguaggio
Il linguaggio è la prigione dell’essere
Nella sua prigione abita l’uomo
I pensatori e i poeti sono i demolitori di questa prigione

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Il punto di contatto tra estetica e matematica: un infinito senza qualità

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