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di Paolo Risi ||

 

Ho chiesto un aiuto a Francesco Biamonti dando un’occhiata alle nuvole strappate che ieri sfilavano sopra la mia testa.

All’origine del piccolo scambio soprannaturale un fatto di cronaca destinato a dissolversi, ascoltato per caso fra le voci del lungolago. E poi il ricordo di Vento largo, libro che Biamonti pubblicò per Einaudi nel 1991.

Si è detto che lo scrittore ligure, più o meno, abbia riscritto sempre lo stesso libro: nel suo immaginario paesaggi scoscesi, uomini maltrattati dalle circostanze, marinai pensosi, figure femminili ammalianti, viaggiatori sicuri come bussole sulla linea di confine fra Italia e Francia.

In Vento Largo il protagonista è un malinconico coltivatore e passeur di montagna, guida per uomini in movimento che aspirano ad una nuova vita, fuggiaschi che bramano la frontiera o che addirittura la rendono oggetto di devozione.

Varì, questo è il suo nome, assiste alla rovina della sua povera piantagione, probabilmente ha bisogno di denaro. Qualcuno gli suggerisce di ritornare in cammino, ad accarezzare dirupi, a contrabbandare uomini nei bagliori di luna. Gli si riconosce una serietà, l’adesione a principi che rendono dignitoso ogni compito, sia che questo compito dimori nel fuoco della legalità, sia che ondeggi nelle innumerevoli zone d’ombra, dove ognuno non può far altro che essere se stesso.

Cosa avrebbe detto Varì di quel ragazzo che una sera di fine inverno è salito sul tetto di un treno. Molte frontiere avrebbe voluto percorrere dopo la promessa della navigazione, dopo il primo assaggio di schiavitù.

La prima frontiera è a ridosso di un lago, che a malapena è riuscito a scorgere dietro le auto incolonnate della litoranea. Il treno arriva da Milano, è diretto a Bellinzona e fila spedito sulla piana che si sfalda tra Lombardia e Canton Ticino, paesaggio di antica prosperità, di capannoni e prati scricchiolanti. Il ragazzo si arrampica, schiva gli sguardi dei pochi passeggeri e si infila in una nicchia fra due convogli. Attende il primo impulso, l’attrito da vincere, poi la massa poderosa comincia a scandire il suo ritmo. Risulta formidabile l’accelerazione che assesta la corsa, invisibile la rotaia annullata dal frastuono. Forse per un istante il ragazzo pensa ad una specie di libertà mentre come un cazzotto la galleria avanza nella prospettiva inesorabile. Il respiro seguente precede la folgorazione e un corpo senza nome, senza documenti, rimbalza fra acciaio e pietrisco. Oltre i finestrini avvampa un coagulo di vita e fuoco che alcuni viaggiatori intercettano. Il treno, appena superato il confine, viene fatto fermare. Quegli stessi viaggiatori il giorno successivo toccheranno i loro smartphone per reperire informazioni, per assemblare i fatti e ricavarne un’idea di compiutezza. Leggeranno un resoconto, o parte di esso, schivando banners e forme di desolazione.

Non è ancora stato possibile stabilire con esattezza la dinamica dell’accaduto: si ipotizza che la vittima – senza documenti e di origine africana – possa essere salito sopra il treno di nascosto in territorio italiano. Come riferisce la polizia ticinese, l’uomo è stato” folgorato dalla scarica sprigionatasi dalla linea di contatto delle ferrovie”.

Mi sono convinto a salire sulle alture dove ancora abita Varì. Anche questa è stata terra di passaggi scoscesi, silenziosi e nobili. Al giorno d’oggi accetta il disordine globalizzato, il sistema perverso delle migrazioni. Come a Ventimiglia, a Milano, nelle geografie del transito. Ovunque abboccamenti meschini, smercio di uomini allungati sugli arenili, fantasmi storditi nei brodi argillosi. Varì è stato mio compagno di università, un Varì prealpino, arroccato e spinoso, capace di buttare all’aria la sua vita quando ancora la forza pareva inesauribile. A trent’anni si è concesso alla tirannia della terra, ha ricomprato i terreni abbandonati dai suoi avi e ha provato a coltivare, a potare un vitigno maldestro, ad accudire un piccolo gregge di capre. Negli anni novanta ha accompagnato oltre confine gruppi di sbandati, perlopiù kosovari e bosniaci, ricevendo in cambio gratitudine e soldi per sopravvivere. Una specie di vocazione, una prosecuzione della sua natura, ma nel frattempo gente di pianura fiutava l’affare, iniziava a collocare avamposti blindati, ad organizzare accoglienze fino al cuore del mediterraneo. Ho chiamato Varì per chiedergli se avesse sentito del ragazzo finito sotto il treno. Mi ha detto di salire senza indugi, che ne avremmo parlato, e di portare con me una bottiglia di quello buono, che altrimenti mi avrebbe accolto a fucilate.

Varì è disteso su un divano malridotto e stuzzica la manopola di una vecchia radio a transistor. Quasi non mi saluta, lancia uno sguardo malizioso e dice che per un simile evento – la mia presenza dopo così tanti mesi – occorre un sottofondo adeguato, una musica celebrativa. Faccio come se niente fosse, acconsento alla sua ironia e vado ad appoggiare lo zaino in un angolo della stanza. Dalla radio irrompe una fanfara balcanica che sostituisce il fastidioso ronzare delle onde medie. Varì è soddisfatto di quei suoni malinconici e si alza per andare a smuovere le braci nel camino. Evitiamo di scambiarci istruzioni e disponiamo le nostre frugali vivande sul tavolo centrale: il mio vino leggero, il formaggio e il pane fatti da Varì, la cassetta di legno con dentro la frutta secca. Mangiamo parlando di cose futili, di passioni abbandonate e di quel che è restato della politica. Poi accenno al ragazzo del treno, ai fuggiaschi nei pressi della stazione e agli sconosciuti che intrigano nei baretti della città murata. Lui mi parla dell’organizzazione: la manovalanza è composta da pensionati indigenti e disoccupati, da giovani irresponsabili, da una brigata senza arte né parte che mette a disposizione posti auto e le proprie miserie. Sembriamo così indifesi sussurra Varì e va a prendere un libro da una mensola. Avvicina una pagina ai bagliori di una candela. Riconosco la copertina e mi appresto ad ascoltare la sua voce claudicante. Sono parole che non usciranno nel freddo della notte. Sono pensieri rimasti impigliati alle rocce dei crinali.

Che vita c’era su quei sentieri? Nessuna. Si muoveva qualche raro cespuglio. Ma al bordo della strada l’auriva* Celeste stormiva. Era sempre la prima a stormire. Forse per questo s’era guadagnata quel nome.“È sulla sua ceppaia che vorrei dispersa la mia cenere, davanti ai paesi perduti… Che orgoglio!”

Veniva scuro, tornavano già i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.

(da Vento largo di Francesco Biamonti)

* ulivo nel ligure di Ponente.

Francesco Biamonti (San Biagio della Cima 1928 – San Biagio della Cima 2001) è stato uno scrittore italiano. Sono stati pubblicati da Einaudi: L’angelo di Avrigue (1983 e 2008), Vento largo (1991, Premio Comisso), Attesa sul mare (1994 e 2008, Premio selezione Campiello), Le parole la notte (1998), Il silenzio (2003) e Scritti e parlati (2008).

www.francescobiamonti.it


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Il racconto dei due Varì | omaggio a Francesco Biamonti

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