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‘Nulla che si compia rimane intatto’. Naturalismo sensoriale e lacerante sentimento dell’attesa nella poesia di Fernanda Romagnoli.

di Vincenzo Corraro

Esistono esperienze poetiche che hanno così fortemente interiorizzato i grandi temi dell’esistenza, che sono così toccate dalla grazia o dall’ardore della creazione, che finiscono per imporsi – non sempre nell’immediato – con naturalezza e oggettività. Certo è che la profonda esigenza formale e l’uso sapiente dei mezzi espressivi rendono tali oggetti come fermi nel tempo e come sublimati dai caratteri emotivi legati all’opera stessa. Accade, per queste fortunate forme d’arte, che il vissuto o lo stato emotivo di chi scrive siano percepiti come secondari rispetto alla potenza dell’atto creativo, come se la condizione del soggetto – o l’ideologia dei vari movimenti – non abbia per nulla prevalso sull’intelligibilità della forma.

Si può dire che di tale grazia sia intrisa la poesia di Fernanda Romagnoli (1916-1986), la cui opera è da poco posta all’attenzione dei lettori grazie all’ampia raccolta pubblicata dalla casa editrice Interno Poesia, dal titolo La folle tentazione dell’eterno, a cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella. Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat.

Poetessa appartata, ai margini del mondo letterario, sebbene abbia ricevuto in vita il sostegno di poeti come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, la sua voce così singolare e folgorante, che ha attraversato il cuore del Novecento, non si è imposta come avrebbe dovuto nel panorama letterario italiano. Fernanda Romagnoli è uno di quei casi letterari talmente felici e unici, da convogliare su di sé giudizi di valore che oltre ad essere svincolati dai sussulti biografici (per lei piuttosto scarni) finiscono per essere giudizi di fatto, strettamente legati alla tecnica, profondamente connaturati all’oggetto giudicato. Direi che vale per la produzione di questa poetessa “tragica e struggente” (Lagazzi) lo stesso principio che si può applicare per le opere musicali, soprattutto per quanto riguarda il repertorio di tradizione colta (almeno sino a Beethoven e agli autori tardo-ottocenteschi) in cui l’espressione dei sentimenti viene percepita come una proprietà della musica stessa, resa evidente grazie alle variabili connesse alla combinazione dei suoni, alla loro altezza e al loro valore.

E non è un caso che la Romagnoli abbia una formazione musicale di spessore (è diplomata in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia): le sue poesie tradiscono questa impostazione, i cui confini sono l’armonia tra le parti, un’esigente costruzione formale mentre all’interno l’espressività e l’accostamento dei temi emergono per lampi e folgorazioni, proprio come le note di una partitura musicale. Una lettura ad alta voce di questi versi offre anzitutto godimento estetico: turbamenti e riflessioni dei suoi temi più cari nascono dalla combinazione sonora degli elementi, dalla trama di risonanze che inglobano dato e significato, circostanza obiettiva e interpretazione.

Ma è soprattutto il verso a essere modulato come un rigo musicale: il movimento della frase, il ritmo e il timbro che ne sostengono la struttura, l’intreccio di suoni e di vibrazioni che la scelta e l’accostamento armonico o disarmonico delle parole, a volte anche in un crescendo di ossimori o di assonanze, non fanno che conferire una suadente musicalità alle poesie. Due rapidi esempi: ‘Delirassi, chiudetemi la bocca./ Non credete, chiamassi un nome in sogno./ Soprattutto, negli occhi non guardatemi. (Reo di morte). E con un metro che ricalca la struttura strofica dell’aria del melodramma: ‘Lei non ha colpa se è bella,/ se la luce accorre al suo volto/ se il suo passo è disciolto/ come una riva estiva’ (Lei).

Poetessa dotata di grandi slanci, vertigini, contrappunti fulminei, di pulsioni e schegge d’inquietudine che sembrano dati intenzionalmente – per sfumature, gradazioni e agogica – su uno spartito che è magmatico e ne accompagna la stoccata, lo slancio (‘Ma il mio piacere è osare/ di sorridere a cose sconosciute/ la cui forma impalpabile mi tenta,/ il mio piacere è amare/ le fantasie nel sogno possedute. La rondine), Fernanda Romagnoli ordisce la sua tessitura oltre che sull’intreccio espressivo, anche sul silenzio e sul disperato bisogno – e così veniamo ai temi – di mettere a nudo la propria condizione esistenziale e un certo atteggiamento piuttosto remissivo dinanzi ai fatti di una vita “senza storia”. Ma non è la sua biografia a dettare l’agenda dei suoi versi, non certo le sue lamentazioni/confessioni: la loro trasfigurazione drammatica hanno l’evanescenza dell’indefinito, l’approdo è sempre la soluzione inedita, l’insperato, che finiscono per diventare immagini di una classicità dolente.

In ogni raccolta (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il Tredicesimo invitato), l’impianto dialogico (armonico/melodico) emerge con cura, è una specie di tema preparatorio, ed è in queste ondulazioni che il suono o il ‘brillìo’ o il ‘feroce canto’ o il piccolo appunto biografico (l’idiosincrasia verso il quotidiano o la tormentata esistenza – normalissima di moglie e madre ma di vibrante insoddisfazione), s’impongono per bruciante forza comunicativa.

Come giustamente messo in evidenza da Paolo Lagazzi nella esaustiva premessa alla presente edizione, la sua poesia è sempre in movimento, in cerca di un punto che dilati il più possibile i confini delle sue proprie costrizioni, che vada al di là delle proprie ‘parole’ o ‘l’esiguità del dolore’ (Eredità). Poesia religiosa in tal senso, per la materia che è sempre tesa verso l’alto, per angoscia visionaria che hanno solo i mistici, come Adriana Zarri o Santa Teresa d’Avila – stanziali ma contestativi, fermi ma agitati dalla Grazia e spirituali perché nel dolore dell’esistenza scavano feritoie ascetiche, anelano all’assoluto, al ricongiungimento con l’invisibile o con l’altro da sé. Tendono all’annichilimento: “Atomo di carbone/ subito consumato – i miei confini/ Egli conosce – in Sua mano risplende / questa cenere mia.” (Olocausto)

Un anelito che è già ben definito nella seconda raccolta Berretto rosso (1965), in cui la smania di andare oltre la propria realtà si coglie, su un piano umano, negli occhi della bambina che è ‘seduta alla porta di casa’, la cui mitezza, il cui sorriso franco (lirico è il distico che tinteggia questo incontro: ‘Le sorrido passando: lei pronta/ mi sorride dal pozzo dei suoi occhi.) nemmeno scalfiscono un amore asfittico che è ‘fatto solo di parole.’ Su un piano più trascendentale nella presenza/assedio di Dio, che è una rivelazione non innocua, consolatoria. La ‘folle tentazione dell’eterno’ (Quando) diventa ‘innesto’ in un corpo che è ‘domatore di demoni’, ‘campo di battaglia’ – un corpo fragile, cristianamente monco, staccato dall’anima e da una vita che non è mai pienezza (si leggano Preghiera e Al mio corpo).

Fernanda Romagnoli possiede una scrittura caleidoscopica, come riflessa nello specchio (“Ogni cosa diretta a me v’approda,/ ma non vi resta” L’occhio;), intrisa di pennellate simboliste (“Quando agosto è sul finire/ il mattino s’annuncia con clarini/ di fuoco” Rosaio), che ricordano Pascoli per gli accostamenti e le sinestesie e naturalmente Emily Dickinson per le tensioni, lo sdoppiamento, talvolta per l’impianto stilistico e gli incisi (Pagherò il mio bicchiere/ – con l’anima, – con quest’unica moneta/ – creduta d’oro. Bevitore), ma sarebbe riduttivo inquadrarla in una cornice letteraria perché dotata di un’originalità palpitante per quanto riguarda il registro linguistico e l’imprevedibilità delle soluzioni poetiche. L’allontanamento dal mondo provoca uno sfasamento rispetto alla realtà: ciò che percepiamo – meditato e morbido, plastico o apparentemente risolto – è solo la punta dell’iceberg; in quel blocco armonico (quel ‘flusso senza fine che mi porta’, Avvento) sono nascoste l’essenza stessa della sua poesia, la sua verticalità simbolica e spirituale e una tensione – che è sempre giocata a un passo dalla rottura dello schema.

Si scorge, inoltre, nel carattere della poesia della Romagnoli una certa consacrazione dei luoghi mitici, cui si dà un significato assoluto (l’infanzia) – nell’accezione pavesiana. ‘Il mio occhio d’infanzia è sempre aperto’ è un grido che apre a un bisogno inappagato di abbandonarsi alla memoria o all’intimo, che diventano la porta dell’anima, crepe in cui l’incompiuto, l’insensato del reale si adagiano e rivelano la povertà, lo sgomento dell’esile condizione umana. In questo agire mitico, nelle fratture dell’esistenza, è l’attesa a rivelarsi l’unica norma immobile: “Nulla che si compia/ rimane intatto; a renderti divino era l’attesa… (Ritratto).

Un sentimento dell’attesa che continua a essere intriso di puntigli visionari e dei ‘vaghi suoni della vita’, di una fede che sembra postularsi definitiva nell’ultima raccolta Il tredicesimo invitato. Impianto etico e profluvio estetico hanno qui una posa più plastica, dove a risaltare sono lo stupore, la bellezza, i momenti di tenerezza, i legami familiari a volte traumatici e i cambi di luce e il bisogno di quell’ardente desiderio di fuga. La ripresa dei temi ha una lingua musicale molto più pregna di assonanze, metafore insolite, sfumature, anafore, che pare così spontanea e insieme estrema – il lavoro variantistico che emerge dalle carte, ci dicono i curatori, è teso a rendere tale meraviglia – come se la profonda ricerca formale che la Romagnoli impone al verso, implicita nell’impronta del suo più remoto contatto con il mondo, fosse un lavoro ridotto a chiarezza, a contrappunto dell’esistenza di ognuno.

Come il movimento di chiusura di una sonata, i temi ritornano per ellisse o per frammento, con l’uso più intenso dell’allitterazione e del verso breve o con il medesimo andamento diafonico e inquieto delle prime raccolte – Vento d’infanzia: ‘Ah, vento,/ riso d’infanzia, resta con me stanotte./ Resta e prendimi, in gioia e disonore’. O per ondulazioni via via più ironiche e paradossali, entro quadretti tutt’altro che idilliaci: Una vita: ‘Mio padre dal suo ereditò:/ la milza malarica, la smilza/ figura’. E chiose sferzanti, un po’ come i musicisti d’opera che ben conoscevano il trattamento dei sentimenti: “Bevve disancorato il disamore/ dei figli. Con l’ultimo sorso/ entrò nel flutto della vecchiaia,/ affogò nella morte. Fu tutto.’

E infine il desiderio di libertà, che è il compimento dell’attesa e il raggiungimento dell’altezza: uno svettare sulle ombre e sui pesi della vita, sulle incomprensioni, sul senso di inadeguatezza, sull’irrisolta battaglia tra anima e corpo, al punto che Fernanda Romagnoli sa ben involarsi quando decide di farlo: la sua ‘diserzione’ si staglia sull’’estuario del tempo’, sullo spazio che si sfila dai piedi, in un crescendo beethoveniano (che ricorda il tartagliamento metrico del Secondo Movimento della Nona, lo Scherzo): ‘Non v’era qui altro metro che l’eterno’ e ‘Salivo libera, appena appesantita/ dalla parte del cuore’ (Libertà).


Ph. credit:  Astronomy (1875) by J. Rambosson

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