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Poesia e rifrazioni, il mistico confine del Delta del Po

di Paolo Risi

Nel Delta, terra e acqua si confondono, il tutto diventa paesaggio orizzontale; la sua forma è provvisoria: il territorio della provincia di Rovigo, ente che ingloba il Delta veneto, è l’unico in Italia a crescere di anno in anno a causa dei sedimenti prodotti dal grande fiume.

Paesaggio dove uomo e natura sono contigui, interdipendenti: quando questa comunanza è venuta a mancare la potenza idrica ha divelto argini, contrade, ha ridisegnato il territorio e i suoi confini. Il Po e l’uomo: a ben vedere un rapporto complesso, formativo, apportatore di armonie (la poesia del Delta) e di rielaborazioni ardite (lo sfruttamento delle risorse, le opere idrauliche – una fra tutte il Taglio di Porto Viro, deviazione del corso del fiume realizzata dai veneziani agli inizi del Seicento).

Presenze umane, perlopiù intangibili, affioranti dalla nebbia, dagli stormi compatti di zanzare: difficile ma non impossibile accostare le epoche, le differenti consistenze, le dune fossili di 3000 anni fa, antico limite anfibio, ai superaccessoriati birdwatcher del presente.

Ancora una volta la sensibilità, prima di tutto, va ricercata in loco, stanata come si fa con una villa palladiana, una trattoria sentita nominare qualche anno prima. Poeti dialettali, i calli sulle dita della scrittura, una specie di lasciapassare che ci lascerà insoddisfatti e pronti al pellegrinaggio. Uno stralcio di Vóś dla mié tèra di Bruno Pasini:

Scàldat, vilaη, stasìra
s’la pàηza dla to dòna;
admàη l’è Sant Andrè …e al cónt al tórna:
na piànta nóva
pr’uη vèć ch’l’è dré murìr!
Delta, mié Delta… uη nóm…
tèra d’ madrégna…
culór séηza culór:
laźó uη témp,
àlb e tramónt e stéll
ill règul dla fadìga,
sgnàdi dall sfèr dal grand arlói dal ziél…

Scaldati, villano, stasera / sul ventre della tua donna;/ domani è Sant’Andrea… e il conto torna:/ una pianta nuova / per un vecchio che sta morendo!/ …./ Delta, mio delta… un nome…/ terra matrigna…/ colori senza colore:/ laggiù, un tempo,/ albe tramonti e stelle/ le regole della fatica/ segnate dalle sfere del grande orologio del cielo…

Si prosegue nel flusso centrifugo delle terre e dei suoi cantori, abbagliati e ispirati dalle articolazioni, dalle mutazioni che il fiume propone e asseconda. Scano boa del rodigino Gian Antonio Cibotto, romanzo pubblicato nel 1961, introietta e coagula il sentimento del Delta, di una sua propaggine allungata sul mare, raccontando di tre anime disancorate, un vecchio pescatore, un cane «bastardo e felice» e una ragazza «buttata nella vita come si gettano le cicche mezze spente sul ghiaino dei binari». In una sorta di Moby Dick fluviale, Cibotto rende epica l’ultima sfida di un uomo in una terra che non esiste, illusoria, dove il panorama ha il potere di spegnere le voci, riducendole in silenzio.

Anche nel romanzo L’airone del ferrarese Giorgio Bassani, pubblicato nel 1968, l’atto o l’idea di puntare una preda rappresenta lo slancio estremo, il tentativo di individuare una direzione, qualunque essa sia. Tra Ferrara, Codigoro e le rarefatte atmosfere del Po di Volano, Edgardo Limentani, il protagonista del romanzo, incontra – sotto forma di battuta di caccia – il corrispettivo visibile del malessere esistenziale, lo specchio che implacabile rimanda il disamore, il metodo per silenziarlo una volta per tutte.

Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita… E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!

da L’airone di Giorgio Bassani.

Pescatori e cacciatori dentro una sfera biancastra, elementi che si coagulano, come in un’ultima e malinconica grande abbuffata. Il movimento delle acque produce rifrazioni, interpretazioni inedite; uno storione da scovare, l’airone abbattuto crudelmente: il fiume fornisce gli elementi trascendenti, appena visibili (o invisibili) sotto le squame e il piumaggio. Immedesimarsi con i propri fantasmi: Scano boa e L’airone sono forse la linea estrema del litorale, la voce più intima del Delta.

Risalendo la corrente compaiono i viaggiatori, intrepidi o attoniti, prosecutori di un rito, iniziati a un’esperienza intima e irripetibile. Navigano anse, fiutano canneti e percorrono sedimenti, banchi di limo, adocchiano il faro di Pila. Viaggiatori e celebranti – se ne contano a milioni – che imbracciano una telecamera, regolano messe a fuoco, che si affidano alla geometria di un taccuino, alla permanenza di uno spiraglio nautico.

Tonino Guerra, nel poemetto in lingua romagnola Il viaggio, li immagina vecchi, quei viaggiatori, sposi che per la prima volta si mettono in cammino in direzione del mare.

Il carrettiere li ha scaricati a terra quando ormai erano a due passi dall’acqua,
ma c’era una nebbia che copriva tutto,
un polverone d’aria sporca che pareva una tela di sacco
davanti agli occhi di Rico e la Zaira
vagavano in avanti per avvicinarsi al mare
che ronzava negli orecchi
come se ci fosse una nuvola di vespe.
Ma poi si sono persi dentro la nebbia e, urla e chiama,
non si ritrovavano più e intanto erano già dentro all’acqua
fino alle caviglie. Dagli e dagli
con le mani che frullavano davanti alla faccia,
si sono toccati per caso e allora si sono abbracciati
come due che si ritrovano dopo vent’anni d’America.
Piano piano sono arrivati a mettersi a sedere
sulla sabbia asciutta e stavano con gli occhi
a guardare dentro la nebbia dove faceva più chiaro,
e Rico le diceva di avere pazienza
ché da un momento all’altro arriva il mare.

Persistono i ricordi, si avviluppano all’esperienza presente. La tangibilità dell’acqua produce immagini, cambiamenti di stato che hanno il potere di smascherare l’ignoto. Viaggiatori (quanti ce ne sono…) e traduttori della luce, di corpi che si divincolano in presa diretta, ammassati e intrappolati nelle reti. 

Mentre piove nel fiume le reti salgono e il pesce vorace sterminatore è un grumo che s’aggroviglia in unti nodi. Le fauci di oscena larghezza. Le pelli tagliate dalla rete. Il ventre galleggiante dell’esemplare morto. Nelle reti vicine il fiume su cui piove copre il tumulto di carpe corpacciute che si presentano di fianco baluginando foschi riverberi di metallo, però di colore caldo. L’acqua in cui cade la pioggia non fa cerchi, è troppo densa; non ha tremori, è troppo vecchia. Il fiume in cui niente più si specchia muove lento verso il mare. Sue vene fluide passano tra le reti, tra il pescato che si attorciglia, che danza senza fiato: il pescatore in piedi sulla barca si sposta tra le reti aggrappandosi alle funi parallele all’acqua, tese tra pali infitti.

Un brano da Il grande fiume di Dario Voltolini (1998).

Se Voltolini può vantare, da torinese, un legame di cittadinanza con il grande fiume, per Ermanno Rea, napoletano, la fascinazione, l’occasione, forse risponde a uno stimolo culturale, a un’inevitabile, intensa, verifica sul campo. “Un Napoli, pensate voi, innamorato del Po” dice Rea, il quale, nel reportage letterario Il Po si racconta del 1996, descrive il Delta come “un paesaggio dell’indistinto e dell’inafferrabile”, che “immerso nel buio fa pensare a una sorta di cavità siderale, a quella che certi astrofisici chiamano «fluttuazione del vuoto»: è un immenso struggente nulla che incanta e impaurisce”.

La testimonianza, la registrazione di momenti, di situazioni che coprono ad ampio raggio lo spirito errante, rappresentano il grande serbatoio dell’immaginario legato al fiume Po. L’influsso dei simboli, delle assonanze, si fa più dinamico, come se necessitasse di un motore fuori bordo, di soste strategiche, di incontri e ripartenze – una riflessione a parte meriterebbero i grandi fotografi, uno fra tutti Pietro Donzelli. Il racconto diventa per immagini, che siano impresse nella memoria o su un supporto cinematografico.

Cesare Zavattini – (sceneggiatore, giornalista, poeta, commediografo, scrittore, pittore italiano): In un estratto da Viaggetto sul Po (1964).

Acqua e terra terra e acqua, dove finisce il mondo? Indicano da una parte e mi incammino, cammina cammina, da quella parte, insistono, per giorni e per mesi, avanti, per anni e a un tratto si ode una risata: è uno scherzo, dalla parte opposta dovevi andare; porco d… sto per urlare, poi alzo le spalle e torno indietro, tanto per quello che devo fare. Dico ai miei compagni per reagire all’apologo: “Abbiamo compiuto quello che ci eravamo proposto”. Dal basso viene un grido: la barca!, la nostra barca se ne va indifferente verso l’Adriatico, gente tanto esperta l’ha ormeggiata male, se non la raggiungono con il fuoribordo dovremmo passare qui una notte disagiata, non avranno abbastanza coperte, prima m’irrito dopo mi rallegro.

Il Delta compare in 500 e più tra documentari, lungo e cortometraggi, inchieste e serie televisive. Hanno calcato le sue sabbie, attraversato le sue lagune, attori e registi memorabili, autori che si sono lasciati trasportare dal flusso, o che, più prosaicamente, hanno trovato nelle campagne che degradano verso l’Adriatico le ambientazioni ideali per le loro storie. Parliamo – ad esempio – di Luchino Visconti (Ossessione, 1943), Roberto Rossellini (Paisà, 1946), Mario Soldati (La donna del fiume, 1955), Michelangelo Antonioni (Il grido, 1957), Giuliano Montaldo (L’Agnese va a morire, 1976, tratto dal romanzo omonimo di Renata Viganò), Pupi Avati (La casa dalle finestre che ridono, 1976), Carlo Mazzacurati (Notte italiana, 1997).

Come in una stanza dei giochi, dove la creatività modella forme a piacimento, e dove le discipline, i talenti, si associano in nome di un sentire comune, il Po e la sua foce permettono di elaborare una traiettoria poetica, una forma esistenziale. Il documentario, nello specifico, diventa strumento di ibridazione, luogo d’arte condiviso, contenitore di vicende umane che si librano in volo, pur rimanendo così terrene, così simili alle nostre. Nell’impressionante mole filmografica è possibile catturare due titoli che hanno come denominatore comune la reciprocità, la pratica dell’amicizia, lo scambio amorevole di passioni: Strada provinciale delle anime di Gianni Celati, del 1991, scampagnata mistica (quasi un seguito del libro Verso la foce dello stesso Celati) in compagnia di amici, parenti, del fotografo Luigi Ghirri, e Il risveglio del fiume segreto – in viaggio sul Po con Paolo Rumiz di Alessandro Scillitani, del 2012, un road movie liquido (fino allo sperdimento del Delta) in un paesaggio – scrive Luisa Ceretto – spesso inaccessibile, che attraversa quattro tra le regioni più popolose del nostro Paese, che ancora può rivelarsi, a viaggiatori attenti e curiosi in tutta la sua bellezza naturale e selvaggia.

Procedendo nella discesa c’è una crescita della dimensione divina del fiume che piano piano diventa sempre più femminile e sempre più Dio, ad un certo punto non è più un elemento del paesaggio ma una persona, un’entità, qualcuno con cui rapportarsi. […] Noi oggi avremmo proprio bisogno di ritrovare la divinità delle acque, ma anche quella delle montagne, della natura nei confronti della quale abbiamo perso il contatto.”

Paolo Rumiz, da www.remweb.it

Il Delta è una metafora, un vivaio di metonimie, un irresistibile luogo dei ritorni. Nei confini sbiaditi la fantasia trova nutrimento, le collisioni e gli incontri incamerano energia, potenziano l’istante e i dettagli del paesaggio. Il ritorno non è mai indolore, porta con sé malinconie, ferite, memorie di combattimenti. La risacca dei migranti, la follia dell’anguilla, la storia di un certo Fedele Conte Mamai, trovatello del delta del Po, protagonista del romanzo (bellissimo) dell’altoatesino Kurt Lanthaler.

Niente più biancheria sui balconcini. Niente fiori nei vasi. Nessuno alle finestre. E del monumento al centro della piazza era rimasto solo il basamento. Sopra, sterpaglia. E le case tutt’intorno. E i vicoli che si dipartivano. Fedele Conte Mamai, dissi, se solo ti ricordassi chi c’era su questo piedistallo, all’epoca. Ma questa cosa del ricordo perde colpi quanto più ci sarebbe da ricordare. E al suo posto ti restano soltanto le storie, quelle piccole. Sul monumento non ne hai nessuna. Niente che ti venga in mente. Soltanto che qui, dove sei seduto tu, una volta c’era un altro. All’occasione alzava il braccio. Aveva un cappello. Se ne stava a gambe larghe. da Il delta di Kurt Lanthaler, traduzione Stefano Zangrando.


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