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Intervista a Gianluca D’Andrea – Sulla Poesia
Foto di Dino Ignani


Si è tentato più volte anche da queste pagine di fornire una definizione di Poesia, qual è la sua?

Dare una definizione di poesia mi è impossibile. Per provare a rispondere, partirei piuttosto dall’opposto di una definizione, da uno sconfinamento. In un’intervista di qualche mese fa provavo a riflettere sulla consistenza di “traccia” del segno poetico e sull’irrimediabile arbitrarietà che ne caratterizza il limite più evidente. Ecco, ora aggiungerei che il rischio di arbitrarietà è il giusto contrappeso di una forza d’animazione del reale che la poesia rende attiva attraverso la parola, la sua disposizione nel mondo. Lo sconfinamento, cui facevo riferimento, penso faccia i conti con un esubero di senso che la poesia a volte contiene e, altre volte, trasforma in un più scabro lasciare spazio: al reale, al mondo, all’altro. Secondo un adagio, che estrapolo da un verso di Wallace Stevens, «la sua mera selvaggia presenza anima il mondo che abita», ecco la poesia anima il mondo del linguaggio (quello che “abita”, appunto), di un linguaggio che sta, però, al margine del mondo, non nell’appariscenza della comunicazione informativa, bensì in quell’intercapedine tra il rumore e il silenzio, sempre sul bordo del fallimento. In un recente saggio, uscito per Sellerio lo scorso aprile, Ben Lerner scrive: «La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento», io non credo che essa sia sempre una tale testimonianza, però ritengo cha abbia il compito di comprendere l’evenienza del fallimento, se così non fosse, non risponderebbe a un altro dei suoi compiti, forse il principale, quello della veridicità e della sua, appunto, fallibilità.

Come considera il panorama poetico attuale e in che ambito si inserisce la sua proposta poetica?

Una risposta, in questo caso, richiederebbe uno spazio d’approfondimento maggiore. Per questo posso rimandare ai miei lavori critici, più che altro tentativi di orientamento in una situazione, quella italiana degli ultimi decenni, di cui è impossibile ancora stabilire le direzioni. Certo, sembrano emergere alcune tendenze, come il recupero di una linea novecentista che è già stata definita “neoclassicismo moderno”, un’inclinazione che tenta di ricomporre obiettività e scomparsa del lirismo in una sintesi, e in cui la presenza di un soggetto poetante è ridotta all’evidenza scabra degli eventi (penso a Mazzoni, Gezzi, ecc.). Un versante più riconoscibile, in mezzo alla costellazione di molteplici voci, è quello legato all’esperienza di GAMMM, per la scomparsa del soggetto e tutta a favore di un’oggettività straniante (tra i nomi di spicco citerei Giovenale, Bortolotti, ecc.). Chiaramente sono solo generalizzazioni, e anche gli autori citati hanno già dei percorsi personali riconoscibili di là da scuole o linee d’appartenenza, perché l’orientamento è tutt’altro che certo, infatti mi viene da pensare a nomi che potrebbero situarsi tra i due versanti appena abbozzati, come Italo Testa o, in un versante più discorsivo, alcuni autori di area lombarda. Resta che la frammentarietà e gli abbozzi di un canone forse sono rappresentativi di un disorientamento che valica i limiti del linguaggio specifico della poesia e ne traduce le problematiche in un più ampio disagio antropologico. Ecco, forse l’impossibilità di rintracciare caratteri condivisibili e canonizzabili, è qualcosa che riguarda un mutamento in atto nelle nostre capacità di confrontarci col mondo e l’impossibilità di abbracciarne risvolti e sfaccettature in un’unica visione. Per questo ho parlato di costellazione, in questo caso si può avere un quadro di rifermento generico ma per niente stabile e, soprattutto, parcellizzato.

Sulla mia posizione all’interno delle varie dinamiche, anche per i motivi appena esposti, ma non solo, non ho molto da dire. È sempre difficile, infatti, trovare una collocazione al proprio operato, certo ho delle preferenze che emergono sia dalla mia produzione poetica, sia da quella critica (cui rimandavo in precedenza e della quale si hanno molte testimonianze in rete e che sto iniziando a sistemare per eventuali pubblicazioni, la prima delle quali dovrebbe avvenire alla fine del 2017), ma questo non mi consente un’autodefinizione, ancora più difficile della definizione di poesia di cui sopra.

Può descrivere il suo percorso e cosa la ispira maggiormente?

Da quanto espresso finora, e come si noterà dal titolo del mio ultimo libro, uno dei termini ricorrenti nella mia esperienza attuale è “transizione”. Forse, ora che ho raggiunto la soglia dei quarant’anni, potrei descrivere il mio percorso come l’effettivo spostamento, spaziale e temporale, di un’identità. Sono io stesso a mutare in conseguenza di transiti fisici (molti traslochi) e, di conseguenza, psicologici. Altro “spostamento” decisivo: la paternità, con tutto quello che comporta in termini di prove, cadute, rese per proteggere, indirizzare, in una parola “educare” (decisivo per me l’insegnamento come esperienza esistenziale, oltre che professionale) mia figlia. Non credo di dover aggiungere altro, se non che a guidarmi è una necessità di dire il mondo, la relazione con l’alterità, quindi. Se non fosse per questo non scriverei neanche un verso.

Come nasce un verso?

Come ho provato a dire nella risposta precedente, dalla necessità di dire, il che comporta una ricerca sulle parole degli altri che corrobora la relazione. Uno studio costante sulla parola e la curiosità per il mondo (che è anche un prendersi cura, una paternità?) possono far scaturire i versi. Almeno per ora a me succede spesso così.

Ci descriva brevemente l’ultimo lavoro Transito all’ombra (Marcos y Marcos 2016)

Ho detto molto del “transito” che appare nel titolo. Probabilmente l’ombra con cui sembra completarsi il percorso è la stessa parola, l’incapacità di dissolversi o rapprendersi in una definizione fissa. Poi il libro è strutturato in sezioni che oscillano costantemente tra l’apprensione per il reale, la sua storia frammista di micro eventi personali e macro eventi collettivi, e l’angoscia e la speranza che scaturiscono dalla mia immersione nel contesto. Forse è poco, ma posso parlare di percezioni che non riescono pienamente a cogliere il senso dell’operazione sottesa a Transito all’ombra, né riesco a rivelare di più per mia incapacità, è come se l’opera una volta allontanatasi dal suo autore vivesse di vita propria, sempre più fuori fuoco, fino alla scomparsa definitiva.

D’altronde, e concludo con Zanzotto, un maestro a cui tanto devo per l’evoluzione della mia scrittura, non conta l’autore ma il suo atto, l’opera che è giusto viva di vita propria: «soltanto se c’è una speranza che qualche cosa duri e abbia a valicare le curve del futuro, si ha l’atto poetico…»


Gianluca D’Andrea (Messina, 1976). Poeta e critico letterario. Cresce a Messina dove si laurea in Lettere Moderne con una tesi su Valerio Magrelli e il rapporto tra poesia contemporanea e mezzo informatico (Le stagioni di Teléma – Magrelli e i poeti del computer). Dopo la laurea si sposta in varie città d’Italia – con frequenti ritorni nella sua città natale – prima di stabilirsi a Treviglio (BG). Insegna nella scuola media. Alcuni suoi testi sono inclusi in diverse antologie. Cura una collana di poesia presso la casa editrice L’arcolaio. Collabora con Alfabeta2 e Doppiozero. Sue poesie, traduzioni e recensioni sono presenti in riviste e sul web. Ha curato, con Vincenzo Della Mea, l’antologia Verso i bit (Lietocolle, 2005). Nel 2011 è stato finalista al Premio Cetonaverde – sezione giovani.

Opere poetiche: Il Laboratorio. Faloppio-Como, Lietocolle (2004); Sezioni, in Conatus – l’utopia come bisogno la poesia come soluzione. Roma, Coniglio Editore (2005); Distanze. Sul sito http://www.lulu.com (2007); Chiusure. San Cesario-Lecce, Manni (2008); Canzoniere I. Forlì, L’arcolaio (2008); Evosistemi. Salerno, Edizioni L’Arca Felice (2010); [Ecosistemi]. Forlì, L’arcolaio (2013); Transito all’ombra. Milano, Marcos y Marcos (2016).

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