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Territorio-corpo, risveglio-identità. Intervista alla poetessa Giovanna Rosadini

 

a cura di Claudia Di Palma

Una delle tue prime raccolte di poesia, Unità di risveglio, racconta in versi l’esperienza traumatica del risveglio dopo il coma. Cosa ti ha spinto, a distanza di tanti anni, a ripercorrere e rielaborare la stessa vicenda? E cosa è cambiato rispetto alla Giovanna Rosadini di Unità di risveglio?

Lo spunto per riprendere le tematiche della malattia e del percorso di guarigione è arrivato da un progetto in cui sono stata coinvolta, mirante a portare la poesia e la letteratura nei luoghi della sofferenza e della cura, le cliniche e gli ospedali. Progetto che poi purtroppo non è andato in porto a causa della pandemia. A quel punto però il libro era scritto, anche con l’intento di offrire una testimonianza di bellezza e di speranza in una stagione di dolore e sofferenza generalizzati proprio per la diffusione del Covid. Andrea Cati di Interno Libri (marchio in cui si è evoluto Interno Poesia), col quale da tempo pensavamo di far qualcosa insieme, mi ha offerto di pubblicarlo, e così Un altro tempo ha iniziato il suo viaggio fra i lettori. Rispetto a Unità di risveglio, pubblicato nella “Bianca” Einaudi nel 2010 e scritto a ridosso dell’incidente occorsomi nel 2005, che si potrebbe definire un diario in versi sgorgato “a caldo” da quegli avvenimenti, questo secondo libro sul tema affronta gli eventi “a freddo”, da una maggiore distanza anche emotiva e da una conseguita rielaborazione esistenziale che mi ha portato a un nuovo equilibrio. La me stessa di allora era ancora molto debilitata e in pieno tumulto emozionale, profondamente segnata e coinvolta dagli eventi, oltre che ancora sostanzialmente ignara di tutte le conseguenze che avrebbero comportato… il tasso di effusività, in Unità di risveglio, è dunque piuttosto alto. Nel nuovo libro è diverso anche l’approccio espressivo, che riprende la forma scelta per l’ultima sezione di Frammenti di felicità terrena, l’autoantologia uscita per Lietocolle/Pordenonelegge nel 2019, quella degli inediti in lasse prosastiche. Anche qui, ho scelto un approccio tendenzialmente più narrativo, e tuttavia sempre di linguaggio intensificato si tratta, anzi, direi di più: di un vero distillato di quell’esperienza, passato attraverso il filtro della memoria.

Il tuo ultimo libro si intitola Un altro tempo. “Altro” e “tempo” sono due grandi temi della poesia, e tu li combini in un titolo forte ed evocativo. Cos’è questo “tempo altro”? È un tempo passato? È altro rispetto al presente? Oppure è una diversa percezione del tempo? Forse è il tempo lento che scorre nella clinica? O è il tempo della poesia, del prendersi cura di sé e del proprio corpo con le parole?

Il riferimento audeniano del titolo mi pare evidente, ed in un certo senso è più che un omaggio. Così si intitolava peraltro anche, coi versi di Auden in epigrafe, una delle liriche di Unità di risveglio, e certo c’è il rimando a qualcosa di epocale… Se per Auden, che inaugura, col libro omonimo, il suo esilio volontario negli Stati Uniti, il riferimento è a una nuova stagione di vita in cui prende atto della sconfitta delle utopie rivoluzionarie degli anni Trenta e della necessità di definire un nuovo ruolo per l’artista, più disincantato rispetto alla possibilità della poesia di incidere sulla realtà del mondo, per me l’allusione riguarda l’ingresso in una nuova dimensione esistenziale, quella della fragilità e dell’insufficienza di chi è stato diseredato dal suo corpo, quella di una nuova consapevolezza legata alla percezione dei propri limiti e della solidarietà creaturale con quell’umanità depotenziata che ha subito un danno irreversibile. Il “tempo altro” è quello della presa di coscienza concreta della nostra insufficienza, che certamente è una verità in senso ontologico ma che rimane sottotraccia nelle nostre vite a meno che non intervenga un evento traumatico a farcelo concretamente presente. È il tempo del limite ma anche quello in cui, a maggior ragione, la vita ci appare in tutta la sua significatività, proprio perché impariamo a vederne l’essenziale.

Il rapporto con il corpo è uno dei temi, o forse il tema principale del libro. Un corpo che diviene territorio, luogo. “Il mio corpo è un luogo pubblico”, scrivi a pag. 16, e forse il corpo di ognuno di noi, indipendentemente dal vissuto personale, è “pubblico”, è continuamente esposto agli stimoli dell’ambiente. Qual è il tuo rapporto con il luogo-corpo e quale invece il rapporto con l’ambiente circostante?

Il corpo, certo. “Siamo corpi immersi nella Storia”, ha scritto Niccolò Nisivoccia nel suo ultimo, meraviglioso libro, Quasi una cosmologia, che ha al centro il corpo e le facoltà percettive. Aggiungerei: corpo come, hobbesianamente, l’essere e la realtà stessa. O, per dirla con Merleau-Ponty, l’uomo è corpo proprio, c’è perfetta osmosi tra corporeità ed esistenza. Corps propre ovvero corpo vissuto come proprio, non oggettuale ma intenzionale, in esilio dal mondo eppure nel mondo, scisso e separato da sé stesso per sempre, e costantemente volto a una riconquista ontologica, che avviene, necessariamente, nel mondo del sensibile, dei fenomeni di fronte a cui, pur immerso, è capace di meravigliarsi… considerato che ogni corpo racchiude in sé l’ambiguità per cui è al contempo corps objectif , corpo fisiologico, oggettuale, e corps propre o vécu, corpo proprio, vettore di intenzioni ed emozioni, del proprio essere-nel-mondo: “Il corpo che io sono non è una cosa in mio possesso, non è una proprietà del mio essere, ma è una sua modalità, un mio modo – o, meglio, il mio modo – di essere”. Ecco dunque che mi viene da pensare al corpo malato/traumatizzato come a un corps objectif che esprime un besoin, dei bisogni, di natura concreta, medicamentosa, di cura, affinché possa ripristinarsi e riaffiorare quel corps propre latore di désir, il desiderio che trascende la sfera delle necessità elementari e fisiologiche ed è orientato ad una tensione incessante verso un’eccedenza di natura sentimentale e spirituale. Al di là delle contingenze ospedaliere, per cui il corpo del paziente è, sì, “un luogo pubblico” esposto di necessità alle procedure di assistenza, nella vita ordinaria invero pubblico lo è in misura decisamente minore, per lo meno per quanto mi riguarda, salvo forse sovraesposizioni mediatiche… ma più per altre categorie di persone, ovviamente. In campo culturale e artistico, il corpo acquista particolare rilevanza nella ricerca espressiva femminile (e penso per esempio al lavoro di artiste come Kiki Smith, Orlan e, in Italia, la bravissima Tiziana Cera Rosco), cosa che anch’io rivendico non solo in relazione a quanto ho scritto in riferimento al mio percorso di malattia e riabilitazione… Nelle raccolte precedenti lo menziono in riferimento alla sfera amorosa e sensuale, alla dimensione del materno, ed è sempre stato un tema molto presente nella mia poesia, che è essa stessa un corpo vivo, nel senso che sono sempre stata molto attenta alla corrispondenza fra vissuto e scrittura, anche là dove non c’è nulla di lirico o autobiografico, come nella raccolta Il numero completo dei giorni, libera trasposizione e attualizzazione di spunti tratti dalla Torà ebraica, ovvero l’Antico testamento: “Dare un corpo alle parole, toglierle / dalla notte impalpabile e affamata /d’aria, che abbiano peso, che sudino /come organismi maturi, da cogliere /o uccidere, digerire perché si facciano /azione, energia di passi e movimenti, /maledizione del pensiero. Che entrino /nelle nostre carni irrevocabilmente, / lame affilate o pallottole, sferza di gelo / o limpido sole, promessa mantenuta / del cuore”.

Un altro tema del libro è l’identità, che appunto è un’identità da ricostruire. È bellissimo quel passaggio in cui tu ragioni con la logopedista e ti chiedi “se l’identità di una persona è data dall’insieme del patrimonio fisico/biologico/genetico racchiuso nel proprio corpo alla nascita da un lato, e dalla somma stratificata delle esperienze fatte interagendo con l’ambiente, e quindi dalle competenze acquisite nel corso della propria vita dall’altro lato”. L’identità è un concetto polisemico e forse inafferrabile. Di certo, le relazioni che intessiamo con l’ambiente e con il paesaggio naturale sono fondamentali nel processo di identificazione del proprio sé. Pensi che la poesia ti abbia aiutato a ri-avvicinarti alla natura, a recuperare quel senso di appartenenza che si era “slacciato”?

Di sicuro, un evento traumatico come quello capitato a me costringe a fare i conti con ciò che pensiamo e sentiamo di essere, e produce, nei suoi irreversibili effetti, una profonda cesura. Quando, tornata a casa, cioè alla mia vita milanese, ho iniziato un percorso analitico che mi aiutasse a metabolizzare quanto mi era successo, ero pervasa dal volontaristico intento di ritornare ad essere esattamente quella di prima. Nei dodici anni di terapia che sono seguiti, ho imparato che l’identità non è qualcosa di granitico, ma si trasforma col tempo… Quindi, certo, ho lavorato per ricostruire ma anche per accettare i cambiamenti intervenuti, elaborando il lutto per la menomazione subita ma, anche, mettendo a fuoco le possibilità residue di azione e realizzazione, e, paradossalmente, questa nuova fase della mia vita mi ha portato ad attualizzare ciò che prima dell’incidente ero solo in potenza, una persona che scrive e pubblica libri. L’incidente è stato di fatto una rivoluzione copernicana: sono passata dal curare i libri degli altri al pubblicare i miei. Cosa che prima non mi ero mai legittimata. Inoltre, come giustamente osservi, il concetto di identità è polisemico e difficilmente definibile, e la componente sociale e quella relazionale sono essenziali per la sua formazione e precisazione. “L’Io è un miracolo del Tu”, ha scritto Edmond Jabès, ciò che siamo è il frutto della nostra interazione con gli altri e quello che siamo cambia a seconda della percezione che gli altri hanno di noi, così come noi siamo di volta in volta diversi a seconda delle persone con cui ci rapportiamo… Al risveglio dal coma, la presenza dei miei cari è stata determinante per recuperare l’immagine e la memoria di me stessa che erano contenute nel loro sguardo, un po’ come accade per un neonato che rispecchiandosi nello sguardo della madre prende coscienza del proprio essere… Il senso e il significato di chi ero, in quell’ormai lontano periodo ospedaliero, me lo restituiva il legame ritrovato con i miei genitori, i miei fratelli, mio marito e i nostri bambini, la nostra appartenenza reciproca. Poi, certamente, la relazione con l’ambiente circostante, la natura selvaggia della Calabria (ero ricoverata in una clinica di Crotone), ha fatto sì che ritrovassi quel senso di comunione col mondo che mi ha consentito di riaprirmi alla vita: le spiagge battute dal vento, il mare come elemento di rigenerazione, i tramonti estivi…

Dopo tante bellissime raccolte in versi, ci doni per la prima volta un insieme di prose poetiche, una sorta di poema in prosa. Come osserva giustamente Niccolò Nisivoccia nella postfazione, “si tratta senz’altro di poesia, al di là dell’assenza di classiche scansioni metriche, se semplicemente ci disponiamo ad abbandonare l’idea tradizionale che della poesia siamo abituati ad avere”. Cosa ti ha portato a scegliere questa forma stilistica?

A dire il vero si tratta di un processo iniziato con Fioriture capovolte, raccolta in cui già è presente una prosa poetica, ed è continuato, come detto sopra, con la sezione di inediti in lasse prosastiche a chiusura dell’autoantologia Frammenti di felicità terrena, che sono altrettanti lampi rievocativi di momenti vissuti nell’infanzia. Ero alla ricerca di un modo più disteso di raccontare le cose, forse di una maggiore precisione e comunicatività… Mi sono resa conto, scrivendo, che questi obiettivi in realtà erano una forma di limite alla mia libertà espressiva, che sostanzialmente coincide con l’imprevedibilità e imponderabilità del verso, ma sono comunque molto soddisfatta del risultato: una scrittura più orientata verso una chiarezza del dire non necessariamente è meno intensa e verticale… Seguire un filo in apparenza più logico e razionale non preclude la componente intuitiva del processo creativo, che si traduce in accensioni immaginative o linguistiche…


Due poesie di Giovanna Rosadini

I. All’inizio c’è questo lentissimo riaffiorare alla coscienza, sprazzi di luce che per brevi istanti fanno esistere il mondo: la tenda pieghettata oltre il vetro di fianco al letto, illuminata da un raggio pulviscolare di luce; qualcuno che mi issa in piedi prendendomi sotto le braccia da ambo le parti, e come in sogno il piede sinistro che si piega quasi fosse di burro, non reggendo il peso… 


XXIX. Sto imparando la gratitudine: per la seconda possibilità che mi è stata data, per la bellezza del mondo che posso attingere anche fra queste mura, la dolcezza delle sere estive in giardino, la luminosità accesa del mare che mi accoglie ogni mattina oltre le finestre della palestra, per la partecipe dedizione di medici, terapisti ed infermieri, per l’amore che quotidianamente mi testimoniano i miei cari.


Giovanna Rosadini: Nata a Genova nel 1963, si è laureata in Lingue e Letterature Orientali all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia.  Ha lavorato per la casa editrice Einaudi, come redattrice ed editor di poesia, fino al 2004, anno in cui è uscito, per lo stesso editore, Clinica dell’abbandono di Alda Merini, da lei curato. Ha pubblicato la raccolta Il sistema limbico per le Edizioni di Atelier nel 2008, e altri testi poetici in riviste e antologie collettive. Nel 2010 è uscito Unità di risveglio, per la Collezione di Poesia Einaudi. Per lo stesso editore ha curato l’antologia Nuovi poeti italiani 6, del 2012. La sua terza raccolta poetica, il numero completo dei giorni, è stata pubblicata da Nino Aragno editore nel 2014. A maggio 2018 la pubblicazione di una nuova raccolta, Fioriture capovolte, ancora per Einaudi editore, Premio Camaiore, cui ha fatto seguito, nel luglio 2019, l’autoantologia con inediti Frammenti di felicità terrena, edita nella collana “Gialla oro” di LietoColle /Pordenonelegge, Premio Merini. Appena uscita a giugno 2021, per i tipi di Interno Poesia, la silloge in lasse prosastiche Un altro tempo. Vive e lavora a Milano.


Claudia Di Palma, nata a Maglie nel 1985, vive e lavora a Lecce. Tra le sue esperienze più importanti si annovera la passione per il teatro. Ha collaborato con “Astragali Teatro” (2005) e “Asfalto Teatro” (2006/2012) e attualmente collabora con la compagnia teatrale “Suddarte”. Nel 2016 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Altissima miseria (Musicaos Editore), ricevendo diversi premi e riconoscimenti. Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di poesie Atti di nascita (Minerva Edizioni). È presente nell’antologia Il corpo, l’eros (Giuliano Ladolfi Editore 2018), nell’Almanacco di poesia italiana Secolo Donna 2019 (Macabor Editore), in Maternità marina (Terra d’ulivi edizioni 2020) e in diverse riviste, tra cui Atelier, Gradiva, Le Voci della Luna. Le sue poesie sono state tradotte in inglese e in spagnolo. Fa parte della piattaforma europea di poesia “Versopolis” e della redazione del lit-blog “Poeti Oggi”.

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