Una morale per la vita di tutti i giorni
F. La Cecla, P. Zanini,
Eleuthera 2025
da Redazione
Cosa vuol dire “sapere vivere”?
Non in senso moralistico, ma nel senso più concreto del convivere, del sapere stare al mondo insieme agli altri? È a questa domanda che Franco La Cecla e Piero Zanini tornano a rispondere, con la nuova edizione aggiornata e pienamente dentro il nostro presente.
Il testo, già apparso nel 2012, rilancia oggi una riflessione più che mai urgente: la dimensione morale quotidiana non si fonda su leggi o religioni, ma sull’arte sottile e discreta della convivenza. È una morale che non si insegna, ma si acquisisce per imitazione, attrito, prossimità. Un “sapere stare al mondo” fatto di sospensioni, piccole riparazioni, silenzi condivisi e gesti minimi.
Come ci raccontano nella postfazione, l’etica proposta dagli autori non è quella delle norme assolute o dei comandamenti universali. Nasce dal semplice abitare accanto, si apprende stando insieme e si modula in base alle circostanze, alle persone, ai momenti. Una forma di tatto, potremmo dire, che non si insegna nei manuali, ma si affina vivendo. È la stessa che permette di “aggiustarsi” a vicenda, di capire quando parlare e quando tacere, di riconoscere lo spazio dell’altro senza invaderlo. Non è meno esigente di quella codificata, ma più esposta alla fragilità, al dubbio, all’imprevisto.
In questa prospettiva, condividere la vita diventa un esercizio quotidiano di etica, non in quanto scelta straordinaria ma come impegno costante. Non si tratta di trovare l’accordo perfetto, bensì di sostenere la tensione del dissenso, di accettare che non tutto si può risolvere, e che anche nelle discrepanze si può costruire una convivenza. Il riferimento al pensiero di Cavell, Wittgenstein, Austin, ma anche ad autori come Veena Das e Michael Lambek, disegna un panorama teorico solido ma non chiuso, capace di tenere insieme la filosofia del linguaggio e l’antropologia delle relazioni quotidiane.
Il gesto teorico che La Cecla e Zanini compiono è quello di spostare lo sguardo: non cercare più la morale nei grandi sistemi, ma nelle pratiche che reggono l’ordinario. È qui che si fa e si disfa la possibilità della vita comune. Lontano dall’astrazione, questa postfazione scava nella materialità della coesistenza e la mostra nella sua nuda complessità. Non c’è nulla di idealistico: piuttosto, emerge una sorta di realismo etico che sa che il bene, spesso, è un compromesso onesto, una riparazione riuscita, un silenzio che lascia spazio.
Qui di seguito vi proponiamo la lettura di un estratto che ci consente, su questi contenuti di allargare e insieme approfondire lo sguardo, portando la riflessione nel cuore della quotidianità così com’è vissuta, osservata, respirata in giro per il mondo. Viaggiare, come sottolineano gli autori, significa confrontarsi con ritmi diversi, pause nuove, modi alternativi di scandire il tempo. È nella colazione con una zuppa phò a Hanoi o nell’inspiegabile silenzio pomeridiano delle città spagnole che si rivela una forma di sapere, una grammatica implicita del convivere. Le pause – il bar romano, la xinxina portoghese, il chai turco – non sono solo momenti di ristoro, ma atti carichi di significato, rituali che danno forma alla giornata, la dividono in parti sensate, costruiscono una narrazione condivisa.
Queste abitudini – così diverse, così ugualmente necessarie – parlano tutte della stessa cosa: la necessità di dare senso al tempo, di organizzarne il fluire in modo da renderlo vivibile. È questa la sostanza della vita quotidiana: una scansione fatta di regole implicite, di convenzioni affettive, di consuetudini che ci sembrano ovvie solo finché non ne siamo fuori. Lo capisce chi viaggia, ma anche chi osserva con attenzione, chi si sofferma a cogliere il tono di una voce, la distanza tra due corpi in una fila, il modo in cui si aspetta un autobus.
Dentro queste abitudini si annidano anche le tensioni, le resistenze, le contraddizioni. I giovani che cercano di sottrarsi alle regole degli adulti, gli individui che si sentono stretti in norme troppo anguste, chi prova a cambiare, magari con fatica, un ordine che pare intoccabile. L’etica ordinaria non è mai pacificata, ma sempre in bilico. C’è chi vi si conforma e chi ne è turbato, chi la sovverte e chi la ricompone. E tuttavia è proprio questo fluire contraddittorio a renderla così preziosa. Non pretende coerenza assoluta, ma esige attenzione, cura, capacità di riconoscere quando si è in presenza dell’altro.
La morale quotidiana è discreta, ma vincolante. Non si fa notare finché non viene infranta. È quell’intelligenza relazionale che permette agli esseri umani di coabitare, litigare civilmente, sedersi a un tavolo, aspettare un autobus, stendere i panni nello stesso cortile. È anche ciò che gli adolescenti mettono in crisi, che gli stranieri decifrano da outsider, che i dissidenti – a volte – rifiutano o trasformano.
Una morale per la vita di tutti i giorni è, per concludere, un elogio delle regole tacite. Un invito a vedere nella vita ordinaria un terreno morale a tutti gli effetti. E forse, in tempi di fratture profonde, è proprio nella fragilità dei gesti ripetuti, nel ritmo del vivere accanto, che si nasconde ancora una possibilità di ricostruzione.
Per concessione della casa editrice pubblichiamo un Estratto dal libro:
Chi viaggia sa bene che una parte della propria attenzione, quando si arriva in un posto nuovo, è diretta verso un capire come funziona la vita quotidiana della città, del paese in cui ci si trova. «Paese che vai usanze che trovi» significa imparare in breve tempo a conformarsi a un altro ritmo di vita, ad altre maniere di concepire i tempi della giornata, gli spazi del personale e gli spazi della vita in comune. Viaggiare è voler andare verso una discontinuità costante che però ti costringe continuamente a posarti e a confrontarti con il passo a passo, con le abitudini altrui. Sembra quasi una contraddizione, perché il viaggio lo pensiamo come un’evasione dalla vita quotidiana, eppure la prima cosa che facciamo quando ci troviamo in un paese diverso dal nostro è dover imparare o ri-imparare i ritmi locali, la quotidianità locale.
La mattina a Hanoi si fa colazione con una zuppa phò accompagnata da un pane lievitato a forma di churro spagnolo. Certo, se rimarrete in albergo non vi capiterà mai, ma se cominciate a girare e a mescolarvi ai locali, a un certo punto capirete quanto sia importante cominciare la giornata con quello che è considerato per i vietnamiti il pasto per eccellenza.
Se vivete in Spagna per un po’, vi troverete da outsider a domandarvi come mai le città sono vuote, deserte dalle due alle cinque del pomeriggio, e fin quando non capite che questa sosta permette poi di prolungare la giornata fino a notte inoltrata non avrete afferrata una delle leggi della vita quotidiana spagnola.
Ogni paese ha il suo tempo di sospensione, il tempo del bar a Roma, il tempo della xinxina a Lisbona, quello della demi di birra in un bistrò francese, o del chai in un caffè turco, fuori della porta. Per ritmare la vita quotidiana, le sospensioni sono più importanti delle continuità, danno il senso dell’inizio, del passaggio tra una fase e l’altra della giornata, dell’andare verso la sera, della conclusione del giorno.
Ogni cultura ha inventato modi e rituali per dare ai ritmi del giorno il senso di una «normalità eccezionale», dalla recita dei vespri delle vecchiette di un paese siciliano, alle cinque preghiere giornaliere dell’islam, o alle puja hindu accompagnate da uno scampanellio che allontani gli spiriti e svegli la coscienza. Ma la ritualità può essere anche il tempo di comprare un durian nei mercati all’aperto di Bangkok, o quello dell’attesa di una camioneta collettiva nella periferia di Quito.
Se si passeggia tra le strade della «concessione francese» a Shanghai, ci si rende conto di quante sospensioni e di quanti ritmi la gente metta in atto per «ammazzare» il tempo, dal discutere animatamente di fronte al banco dei pesci di un mercato, al giocare a mah-jong o al mettere i panni a stendere negli lilong, i vicoli tra le case basse di questa parte della città.
A chi viaggia capita di domandarsi cosa siano queste abitudini, e perché siano così importanti e così diverse paese per paese. Sono diverse, eppure tutte riconducono a una stessa questione: quella di «sapere» cosa fare della propria vita quotidiana. Esse sono anzi la vita quotidiana, sono le scansioni che le permettono di essere diversa da un indistinto fluire del tempo. La discontinuità che mettono in atto è quella che diventa una forma tenue, ma allo stesso tempo costante, di regola, di regole. Non si tratta direttamente di regole del bene e del male, anche se questa forma di «saper fare», di arte di vivere, è il sostrato, il tappeto delle trame quotidiane su cui ogni altra forma di morale può essere imbastita.
È l’etica «ordinaria» che ci vuole per vivere tutti i giorni, per «saperci fare» con le persone che vivono accanto. È un conformarsi che richiede un apprendimento e poi la quasi dimenticanza di esso. Sono gli stranieri, i viaggiatori, gli osservatori esterni a rendersi conto che la gente, posto per posto, «si dà delle regole» e tacitamente, per buona parte dei casi, le rispetta. Sono regole del buon vivere, dell’andare d’accordo, o del litigare, sono regole dell’uso in comune di spazi, sono norme di «buona educazione» che possono anche diventare norme di «sincerità», di «autenticità», sono quello che gli antropologi hanno chiamato «cultura», implicando che dietro queste banali norme quotidiane si nasconda il senso che la gente dà alla propria vita.
Dentro queste regole ci stanno anche gli scrupoli, gli imbarazzi, gli spiazzamenti, appunto perché tra individui e comunità in uno stesso posto c’è un gioco continuo tra il conformarsi e il non conformarsi. Gli adolescenti, ad esempio, giocano con imbarazzo le regole degli adulti, e spesso i singoli individui si sentono stretti in quelle stesse regole, che a volte contribuiscono – con molta fatica – a cambiare. Chi non si conforma è spiazzato e si turba della propria non perfetta conformità, ma in più dis-turba la maggioranza intorno a lui con la propria voce discordante. L’etica quotidiana è una «deriva» che va lentamente rispetto agli individui e li porta via come una lenta corrente cui alcuni fanno resistenza nuotando in un’altra direzione.